26 settembre 2025

Ripensare la Festa di San Michele: tra tradizione e necessità di rinnovamento

Scrivo queste riflessioni alla vigilia della Festa di San Michele, con la consapevolezza che esse non vogliono costituire una critica all’edizione imminente, ma piuttosto un contributo al dibattito su ciò che la manifestazione potrebbe e dovrebbe diventare.

La percezione diffusa è che la festa, così come oggi viene organizzata, risulti sempre più anacronistica. Il contesto sociale, culturale ed economico nel quale essa era nata è profondamente mutato, e con esso è cambiato anche Piano di Sorrento. Di conseguenza, appare ormai inevitabile ripensarne la struttura, compiendo – se necessario – quello “strappo alla tradizione” doloroso ma salutare, che consenta di salvaguardarne lo spirito attraverso nuove forme.

Alle origini, la Festa di San Michele si configurava come una fiera popolare: al centro vi erano l’artigianato, con particolare riferimento al vimini, e l’atteso concerto di musica leggera in piazza, preceduto il giorno prima da quello bandistico. Le bancarelle proponevano oggetti utili alla civiltà contadina, oltre a piccoli manufatti o invenzioni dal fascino effimero, che spesso si rivelavano di scarsa utilità una volta portati a casa.


Oggi, quel mondo è scomparso. L’artigianato in vimini è pressoché estinto, la cultura rurale si è dissolta, e gli stessi oggetti che un tempo popolavano le bancarelle si trovano facilmente nei negozi o, ancor più comodamente, in rete. Quanto alla musica, il concerto in piazza aveva allora una funzione centrale: la fruizione musicale era limitata al vinile, ai jukebox, alla televisione di Stato e al cinema dei “musicarelli”, cosicché l’esibizione dal vivo rappresentava un’occasione rara e preziosa. Gli stessi artisti vi partecipavano volentieri per promuovere i propri lavori, con cachet sostenibili anche per i comitati organizzatori.

La realtà odierna è radicalmente diversa. La musica è accessibile ovunque e in qualsiasi momento, attraverso piattaforme digitali e canali televisivi; i grandi concerti richiedono ormai investimenti fuori portata per una festa patronale; e gli spazi adeguati non sono più le piazze cittadine, ma arene e location metropolitane. Illudersi di riproporre lo stesso modello significa ostinarsi in un accanimento terapeutico verso un format superato, “ucciso” dall’evoluzione dei tempi.

Molte altre feste patronali hanno già compreso questa esigenza, rinnovandosi senza smarrire la propria identità. Forse è tempo che anche la Festa di San Michele percorra la medesima strada.

Il futuro potrebbe guardare a fiere espositive di artigianato di qualità o di prodotti agroalimentari locali, puntando sull’eccellenza del territorio. Potrebbero essere valorizzati spettacoli folklorici – dagli sbandieratori ai suonatori di tammorra – insieme a momenti di cabaret, artisti di strada, illusionisti e altre forme di spettacolo popolare. Una delle serate potrebbe trasformarsi in una grande sagra in Piazza Cota, ricalcando il successo della “Festa della Pizza” che per anni ha animato la comunità.

In sintesi, ciò che occorre non è un abbandono della Festa di San Michele, ma un suo coraggioso ripensamento. Per sopravvivere e restare vitale, la festa deve liberarsi dai modelli superati, trovare nuove forme espressive e valorizzare la creatività locale, coniugando tradizione e innovazione. Solo così potrà continuare a vivere, con mezzi economici limitati ma con la forza inesauribile della fantasia e della qualità.

18 aprile 2025

Salviamo l’Inno del Calvario: un appello per il futuro delle nostre tradizioni

Scrivo queste riflessioni nel giorno del Venerdì Santo 2025, mosso da una sincera e profonda passione per le nostre Tradizioni. Se si domandasse a un carottese, di qualunque età, quale sia l'inno che più rappresenta la Settimana Santa a Piano, sono certo che la risposta della stragrande maggioranza sarebbe
: "Al Calvario".

È l’inno che portiamo impresso nel cuore, inciso nel nostro DNA. Le sue note sembrano risuonare perfino nelle pietre delle nostre strade, tanto da rendere inimmaginabile una Settimana Santa senza il loro struggente eco.

Ne è prova quanto accadde nel 2022, quando – a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia – i cori dei bambini e dei ragazzi non poterono prendere parte alle processioni. Giunti all’altezza della piazza principale, il coro del Miserere interruppe l’esecuzione del salmo per far risuonare le note del Calvario. Non si poteva – non si doveva – farne a meno. Anche nel silenzio imposto, quel canto doveva trovare voce.

Eppure, da anni, assistiamo con preoccupazione a una costante e significativa diminuzione del numero di bambini e ragazzi che danno vita a questo coro. Nella notte appena trascorsa, erano soltanto venticinque a intonare l’inno, e temo che questa sera il numero non sarà molto diverso.

Le cause di questo calo sono in parte demografiche: la diminuzione delle nascite è un fenomeno che nessuna confraternita può contrastare. Ma ciò non basta a spiegare una flessione così drastica. Altri cori composti da bambini e bambine, infatti, continuano a essere vivaci e numerosi.

A mio avviso, il nodo centrale è rappresentato dalla composizione del coro del Miserere che, da quando a Piano si è adottata la versione del Selecchy, accoglie anche i più piccoli, sottraendo di fatto linfa e voci al coro del Calvario.

Se davvero desideriamo salvaguardare quello che è, a tutti gli effetti, l’inno identitario della nostra comunità, è necessario agire con decisione e senza ulteriori indugi. Le proposte che avanzo sono due:

  1. Stabilire un limite d’età per l’accesso al coro del Miserere, ad esempio fissato ai 16 anni. I ragazzi al di sotto di questa soglia dovrebbero partecipare esclusivamente al coro del Calvario, com’era tradizione.

  2. Aprire il coro del Calvario anche alle bambine e alle ragazze, attingendo, ad esempio, a coloro che già animano con passione il coro del Genti Tutte. L’esclusione femminile dalla Processione Nera rappresenta oggi un'anomalia sempre più difficile da giustificare e difendere. Un primo passo verso una maggiore inclusività, proprio attraverso il canto, potrebbe ridare slancio e futuro al nostro coro più rappresentativo.

Comprendo bene che queste proposte potrebbero suscitare perplessità o resistenze, soprattutto tra i confratelli più legati alla tradizione. Ma la storia – come la parità tra i sessi – non si può fermare. Prima o poi, queste aperture arriveranno. Perché allora non iniziare ora, nel segno della consapevolezza e dell’amore per ciò che siamo stati e vogliamo continuare ad essere?

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