Un accenno storico
Il giuspatronato è il diritto di “patronato” sul beneficio ecclesiastico, riconosciuto giuridicamente dalla Chiesa e spettante a chi ha costituito la dote patrimoniale del beneficio al momento della sua fondazione o l’ha incrementata successivamente, nonché ai suoi successori legittimi. Questo diritto poteva essere ecclesiastico, se goduto da enti, corpi o persone ecclesiastiche (come un monastero maschile o femminile, un capitolo canonicale, un pievano etc.), oppure laicale.(singoli, città, sovrani, parrocchiani etc.).
Il giuspatronato garantiva sostanzialmente ai suoi detentori tre diversi privilegi:
L’onore consisteva nell’obbligo per i rettori di questi benefici di recitare preghiere particolari per la salute spirituale e per il benessere dei patroni e dei loro familiari, che, ad esempio, tra i vari privilegi, fruivano di uno stallo chiuso, una panca o degli sgabelli propri dentro la chiesa, di avere per primi l’acqua benedetta, l’incenso, il pane benedetto e il bacio della pace.
La pensione alimentare a favore dei patroni laici, ma solo se questi erano dei privati, gravava sulle rendite del beneficio in caso di loro miseria, valutata in relazione al tenore di vita ritenuto consono alla propria condizione sociale.
la presentazione dei nuovi rettori
Aggiungiamo a titolo informativo che a questa forma di “patronato attivo” è da aggiungere l’esistenza di norme o pratiche di “patronato passivo”, cioè del diritto degli appartenenti ad una “nazione”, ad una comunità, ad una corporazione oppure ad una stirpe familiare ad essere eletti a preferenza di estranei.
Altra nota importante è che il giuspatronato è incorporale ed indivisibile, se aggiungiamo che, essendo un diritto spirituale, non puo’ essere venduto ne scambiato con un bene temporale a pena scomunica. Ne consegue, a mio avviso, che ogni decisione su eventuali rinunce deve essere presa all’unanimità da tutti i patroni.
I patroni laici corsero il rischio di essere espropriati d’ogni loro diritto nelle battute finali del Concilio di Trento (1545-1563) Qui fu presentato un progetto di Riforma dei Principi, che prevedeva di consolidare solo i diritti di patronato giustificati da quei documenti di fondazione e dotazione, che raramente erano ancora in possesso delle famiglie e delle comunità fondatrici. L’opposizione rigorosa del duca di Toscana Cosimo I impedì che il progetto andasse in porto: per i laici fu possibile sostituire la documentazione originale con «le molteplici presentazioni, ripetute per un periodo di tempo superiore alla memoria d’uomo», cioè per oltre trent’anni. In ogni caso il Concilio limitò i giuspatronati a quelli derivanti dalla fondazione o dotazione revocando tutti quelli derivanti da altre cause.
La fine dei benefici di giuspatronato laicale privato parve arrivare nei primi anni dell’800 durante l’occupazione francese, perché Napoleone concesse ai patroni la facoltà di rientrare in pieno possesso dei patrimoni beneficiali in occasione della prima vacanza, a condizione di versare alle casse statali una somma equivalente a un quarto del loro valore. A Napoli, Gioacchino Murat decise più sbrigativamente di trasferire le doti patrimoniali dei benefici non curati nelle mani dei loro patroni, facendo salvo il diritto dei rettori attuali a godere le rendite beneficiari per tutta la durata della loro vita.
Con la Restaurazione (1814) anche i diritti di patronato privato tornarono all’antico regime.
Nel 1822 qui in penisola sorrentina non tutte le sette parrocchie che erano sottoposte al giuspatronato avevano ricevuto le dotazioni per l’onesto sostentamento del Parroco, così il 10 ottobre 1822 Re Ferdinando I di Borbone, sovrano del Regno delle Due Sicilie, emanò un editto in cui imponeva ai patroni entro sei mesi di integrare la dote delle parrocchie. Il termine fissato trascorse inutilmente e quindi il diritto si doveva ritenere estinto. Tuttavia quando si verificò la vacanza nelle varie parrocchie, gli arcivescovi del tempo, con esplicita dichiarazione, fecero conoscere che volevano che i figliani di quelle parrocchie rimanessero nel loro diritto alla condizione che nello spazio di sei mesi avessero provveduto all’integrazione delle doti come richiesto da Ferdinando I. Negli archivi della Curia sono conservati gli atti notarili che vincolavano le rendite per il fine stabilito, atti che giunsero tutti nel termine fissato. Detti atti sono inseriti nella pratica della elezione popolare dei Parroci nominati dopo il 1822.
Con la legge 29 maggio 1855, n. 878 del Regno di Sardegna e, in seguito, con la legge 15 agosto 1867, n. 3848 del Regno d’Italia, ai patroni laici fu data la possibilità di redimere i beni concessi in dote ai benefici ecclesiastici, pagando allo Stato una tassa equivalente a un terzo del loro valore. Cosa che i nostri avi non fecero facendo sopravvivere il diritto di giuspatronato, diritto di cui ancora godiamo.
Nel Motu proprio “Ecclesiae Sanctae” del 6 agosto 1966 di Papa Paolo VI si legge: “ Sono abrogati i privilegi non onerosi, finora concessi a persone fisiche e morali, che comportino il diritto di elezione, di nomina e di presentazione per ciascun ufficio e beneficio non concistoriale, vacante; sono pure abrogate le consuetudini e vengono tolti i diritti di nominare, eleggere o presentare i sacerdoti ad un ufficio o beneficio parrocchiale.” e successivamente si legge “Se però i diritti o i privilegi in questo campo fossero stati costituiti in forza di una convenzione tra la sede apostolica e una nazione, oppure in seguito ad un contratto stipulato con persone sia fisiche che morali, bisogna trattare della loro cessazione con le persone interessate”. Appare chiaro che il diritto di elezione per le nostre parrocchie è a titolo oneroso a causa delle rendite vincolate nel 1822 che inoltre rappresentano un vero contratto stipulato con la Chiesa dell’epoca in forza del quale i fedeli fornivano la dote per il mantenimento delle chiese e del clero (le rendite) ed in cambio conservavano il diritto all’elezione, quindi l’unico modo per abrogare tale diritto è la trattativa con i fedeli secondo modalità ancora non ben definite.
Fondamentale per confermare la permanenza del giuspatronato nelle nostre sette parrocchie è il vigente Codice di Diritto Canonico ed in particolare il canone 523 “Fermo restando il disposto del can. 682, §1, la provvisione dell'ufficio di parroco spetta al Vescovo diocesano; essa avviene mediante libero conferimento, a meno che qualcuno non abbia il diritto di presentazione o di elezione.”
L’elezione del Parroco
In tutto il mondo esistono ad oggi solo 21 parrocchie i cui fedeli godono del diritto di Giuspatronato. Nella nostra Diocesi (Sorrento-C/mare) hanno diritto di eleggere il proprio Parroco le seguenti 7 parrocchie:
Casarlano - S. Maria di Casarlano
Trasaella - S. Maria delle Grazie
Sant’Agnello - S. Prisco e Agnello
Mortora - S. Maria di Mortora
Piano di Sorrento - S. Michele Arcangelo
Trinità - SS. Trinità
Meta - S. Maria del Lauro
Le suddetta parrocchie eleggono anche le amministrazioni laiche.
In origine votavano solo i capi dei “fuochi” (famiglie patriarcali) poi, fino al 1974, solo i capi famiglia, dal 1992 la votazione è a suffragio universale cioè tutti i battezzati maggiorenni residenti nella parrocchia. Il Parroco eletto “sposa” la parrocchia fino alla morte.
A Piano di Sorrento il diritto di elezione del Parroco risale di certo a prima del XV secolo, quindi prima del 1300. Il diritto era esercitato dalle famiglie Massa, Maresca e Cacace che il 5 maggio 1559 tramite atto notarile lo estendono a tutti i fedeli della parrocchia.
Nel Codice di diritto canonico vigente (risalente al 1983) l’unico punto in cui si fa accenno al giuspatronato è, come abbiamo visto, il canone 523 poi però non ci sono norme che regolino la procedura elettorale. Bisogna tornare indietro al Codice di diritto canonico precedente approvato nel 1917 per ritrovare una regolamentazione seppur superata dal tempo. Nel canone 1450 si stabilisce che per il diritto di giuspatronato “in avvenire non se ne creeranno di nuovi” ed inoltre si invitava a ridurre “quelli che oggi sono patronali ed opponendosi i patroni si osserverà quanto segue” e di qui partiva una elencazione di norme specifiche di interesse più che altro storico visto che ormai il Codice del 1917 risulta abrogato.
Per ovviare al vuoto normativo fu quindi approvato un regolamento diocesano che prevede che il presbiterio diocesano scelga liberamente cinque sacerdoti tra quelli di tutta la diocesi tra cui poi il Vescovo designerà i tre da sottoporre al voto dei fedeli. Quindi col regolamento attualmente vigente viene a cadere l’antico limite secondo cui i candidati dovevano essere nati e battezzati nella parrocchia in cui aspiravano a divenire parroci.
Nel 1987 nell’elezioni svoltesi a Meta in cui fu eletto don Gennaro Starita per la prima volta votarono anche le donne. La partecipazione fu molto alta, si recarono alle urne quell’8 marzo ben 3108 metesi su 5420 aventi diritto (57%).
Altrove il Giuspatronato continua senza problemi
Il nostro Vescovo ha perplessità sul giuspatronato da 11 anni le nostre parrochie sono rette da Amministratori parrocchiali e attendono le elezioni. Ma se la Chiesa è UNA e ci fosse qualche parrocchia che nel frattempo abbia esercitato questo diritto non cadrebbero tutte le obiezioni? O le norme viariano a seconda delle Diocesi? Ebbene due anni fa, nel 2015, la parrocchia di Rolo, provincia di Reggio Emilia, in cui il parroco viene eletto dal Consiglio Comunale, a regolarmente eletto il suo Parroco. L’elezione si è svolta nel novembre 2015 ei all’unanimià è stato eletto don Vianney di origini congolesi.
Le obiezioni
“Chi siamo noi per giudicare un sacerdote?”
E’ vero che noi cittadini nel votare operiamo una scelta e quindi “giudichiamo”, ma giudichiamo solamente chi, a nostro parere, è il sacerdote più adatto a guidare la parrocchia in base a parametri squisitamente soggettivi. Voler forzare la mano ed intendere tale giudizio esteso alla stessa figura dei sacerdoti candidati vuol dire non conoscere il regolamento diocesano che porta all’elezione del Parroco.
La procedura inizia con una cinquina di sacerdoti che viene scelta dal presbiterio diocesano con voto segreto tra tutti i sacerdoti dell’Archidiocesi che abbiano le doti e le attitudini spirituali, morali, pastorali e culturali per reggere il popolo di quella determinata parrocchia (art. 4). Il Vescovo, sentito il Consiglio Presbiterale Diocesano, da quella cinquina ne sceglierà tre da sottoporre al voto popolare (art. 6). E’ chiaro che da una simile e qualificata selezione emergeranno tre sacerdoti le cui qualità non possono essere messe in discussione. Quindi nel voto non giudichiamo il sacerdote in quanto tale ma si esprime solo una preferenza su chi dei tre, le cui qualità sono state già acclarate con una procedura ben codificata, sia a nostro avviso il parroco ideale.
“Il diritto di giuspatronato è anacronistico anche perché ormai nessuna famiglia contribuisce al sostentamento del clero e della parrocchia”
Questa è un’altra delle obiezioni più frequenti con cui chi, come me, difende questa tradizione deve scontrarsi. Anche questa sembra un’argomentazione difficile da demolire, sembra a chi non conosce la storia e non si prende la briga di documentarsi. Sull’anacronismo dobbiamo convenire che la Chiesa è infarcita di Riti anacronistici che visti da chi è culturalmente lontano da essa sembrano senza senso. Io adoro i Riti della Settimana Santa quindi vi prego di non fraintendermi e non montare un caso anzi vi chiedo con me di fare uno sforzo e per un momento guardare a questi Riti con gli occhi di un alieno. Vedreste in una notte di inizio primavera centinaia di adulti in giro per le vie del paese incappucciati e recanti vassoi pieni di cianfrusaglie (dadi, guanti, monete etc.) alla luce di lanterne a cera, più anacronistico di questo! Eppure per noi carottesi tutto ha un senso, tutto ha una ragione e mai ci sogneremmo di definire questi riti secolari anacronistici, di certo sarebbe più consono utilizzare ad esempio luci led al posto delle lanterne di cera ma ovviamente si rispetta la tradizione.
Sul sostegno economico alla parrocchia, che è fondamento del giuspatronato, bisogna ammettere che attualmente le famiglie non finanziano più con regolarità il nostro clero anche se in caso di necessità sono sempre intervenute, si pensi alla raccolta fondi per il restauro della nostra Basilica dopo il terremoto del 1980 o alla realizzazione delle porte di bronzo, ma la risposta sul permanere del diritto di giuspatronato la ritroviamo come spesso accade nella Storia.
C’è un prezioso libretto di don Vincenzo Simeoli intitolato appunto “Jus Patronatus” che venne dato alle stampe nel luglio del 2000 in soli 200 esemplari. Dal testo apprendiamo che il 10 ottobre 1822 Re Ferdinando con un editto invitò i patroni a pagare il dovuto per il mantenimento del clero. L’invito non venne rispettato dalle 7 parrocchie e quindi il diritto di giuspatronato doveva considerarsi estinto. Accadde però che gli arcivescovi del tempo con esplicita dichiarazione fecero conoscere che volevano che i figliani di quelle parrocchie rimanessero nel loro diritto a condizione che entro 6 mesi avessero provveduto all’integrazione delle doti così come previsto dall’editto di Re Ferdinando I. Nell’archivio della Curia sono conservati gli atti notarili che vincolavano le rendite per il fine stabilito e questi atti sono inseriti nella pratica di elezione di ogni parroco eletto dopo il 1822. Quindi quelle rendite dai nostri avi vincolate alle necessità delle parrocchie ancora esistono ed ancora producono reddito e l’hanno prodotto in tutti questi decenni ed è su questa base che si fonda il permanere del diritto di giuspatronato. Ed è per questo che il Vescovo o il Papa non potranno mai revocarlo se non con un accordo con la controparte (noi fedeli), il nostro giuspatronato non è un privilegio ma un diritto derivante da un onere che tuttora grava sulla collettività (mancato godimento di quelle rendite da parte nostra a favore delle parrocchie). Quindi il tutto puo’ configurarsi come un vero e proprio contratto cui la singola parte (fosse pure il Papa) non puo’ derogare.
Vi sono poi altre obiezioni di minore o nulla importanza, c’è chi paventa un pericolo di divisione tra i fedeli a causa di una eventuale campagna elettorale citando esempi recenti. Beh in una tradizione secolare di eventi del genere se ne ricorda solamente uno, quello recentissimo relativo all’ultima elezione, un po’ deboluccia come motivazione, se su 100 elezione una è andata male è quest’ultima l’eccezione e non la regola! Leggere poi che le elezioni sono “scempio ecclesiale opera del demonio” e che tale dichiarazioni arrivano dall’ultimo dei parroci eletti mi fa cadere letteralmente le braccia, dichiarazioni come queste sono anacronistiche e prive di senso!!!
Altra ridicola obiezione è che potrebbero recarsi alle urne anche i non battezzati. In teoria il problema si porrebbe ma in primo luogo la percentuale dei non battezzati è irrisoria rispetto al totale degli aventi diritto e se pure nell’improbabile ipotesi si recassero tutti a votare influenzerebbero poco l’esito della consultazione. Poi mi chiedo per quale motivo dovrebbero recarsi a votare? E se pure lo facessero che danno potrebbero fare? La scelta è comunque limitata a tre sacerdoti scelti con i metodi di cui sopra e quindi tutti meritori e di provata fede e capacità.
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Fonti:
Don Vincenzo Simeoli “Jus Patronatus” - Ed. La Pergamena - 2000
Francesco De Angelis, Tommaso Maresca “Memorie storiche della chiesa di S. Michele Arcangelo in Piano di Sorrento” - Ed. G. D’Onofrio - 1935
Gaetano Greco “Giuspatronato e Chiesa in Italia” - Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa (www.storiadellachiesa.it) - 2015
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