Voglio condividere questo breve scritto pubblicato oggi sul profilo Facebook di Ciro Ferrigno, inutile dire che condivido in pieno quanto lui scrive, sono certo che tutti noi saremo pronti a correre in soccorso della Nostra Basilica in caso di bisogno, come già avvenne in occasione del sisma del 1980. Forse noi non saremo all’altezza dei nostri padri che edificarono questo tempio, di certo gli ultimi Vescovi e gli ultimi sacerdoti della nostra Parrocchia non sono all’altezza dei loro predecessori che custodirono e preservarono le nostre tradizioni ivi compresa quella dell’elezione del Parroco (Domenico Cinque)
Un paese, perché sia tale, ha bisogno di strade, case e palazzi, almeno di una piazza, punto di aggregazione, di un luogo che sia casa di Dio e di un edificio che serva per il governo della comunità. Nella Planities dell’alto Medioevo non mancavano le case, al centro di vasti frutteti, piccoli agglomerati rurali abitati da contadini ed operai al servizio dei proprietari terrieri, in genere nobili e ricche famiglie o monasteri sorrentini. La strada Minervia che collegava il nostro territorio con quello stabiese si inerpicava su per le colline equane, superava la sella di Alberi e scendeva a Meta per l’attuale Petrale. Costruita forse in epoca arcaica, era finalizzata a raggiungere dapprima il Santuario dedicato al culto delle Sirene e poi quello della Dea Minerva, sacra a Greci e Romani, tempio che sorgeva all’estremità del Promontorium Minervae, oggi Punta della Campanella. Erano molteplici, nella Planities, i sentieri e le stradine che collegavano i vari caseggiati, per lo più sorti in prossimità dell’importante acquedotto del Formiello, che garantiva la presenza dell’acqua potabile. Sussistevano nuclei di collina, come la vetusta Sant’Agostino, poi Galatea e Litemo o rivieraschi, dove erano attive la pesca ed il collegamento con la non lontana Napoli, da sempre punto focale del Golfo.
Almeno tre erano i templi di epoca greco-romana, che punteggiavano il territorio della Planities, in un triangolo sacro, destinato a rimanere tale nei secoli a venire. Uno era dedicato a Venere e nei suoi pressi sarebbe comparsa la Madonna ad una contadina che pascolava il suo armento, presso un albero di alloro. Un altro dedicato a Galatea, la divinità marina, sarebbe diventato il primo centro di devozione mariana del territorio e la prima parrocchia della Planities. Un terzo, quello forse dedicato ad Apollo, è da collocare dove sarebbe stata edificata l’attuale Basilica di San Michele, centro e casa di Dio a Carotto. È veramente emozionante pensare che luoghi di culto come il Santuario della Madonna del Lauro e la Basilica di San Michele insistano su aree considerate sacre, praticamente da sempre! Non Galatea, che fu distrutta dai Saraceni e riedificata più a valle, nell’attuale Mortora. Gli antichissimi fabbricati, passati dal culto pagano a quello cristiano, con l’innalzamento della Croce, diventarono il centro di gravità degli abitati, destinati ad espandersi nel tempo. A Carotto furono tre famiglie a farsi carico della cura del nuovo tempio: Cacace, Maresca e Massa, che conservarono a lungo il patronato sulla chiesa, con l’annesso diritto di presentare il parroco. Successivamente, con atto del Notaio Giovan Ferrante Maresca del 5 marzo 1559, il patronato fu esteso a tutto il popolo, con l’obbligo di concorrere alle spese per il decoro della chiesa ed al mantenimento del Parroco pro-tempore con una dote adeguata, eleggendolo in una terna di nomi proposta dall’Arcivescovo di Sorrento.
Sono sette le parrocchie che hanno il Diritto di Patronato nelle elezioni popolari del parroco: la già citata San Michele, poi Trinità, Santa Maria di Galatea, Santi Prisco ed Agnello a Sant’Agnello, Santa Maria delle Grazie a Trasaella e Santa Maria di Casarlano a Sorrento. Tale diritto è documentato in un testo degli inizi del XVI secolo, da cui si evince chiaramente che la prerogativa già vantava radici plurisecolari. Nel resto d’Italia le altre parrocchie che conservano questo antico Diritto sono: Traversella e San Giorgio a Chieri in Piemonte, Guastalla Roli in Emilia, Cravate in Lombardia e poi Pompei, Barano d’Ischia, San Ciro a Portici e Secondigliano a Napoli.
Negli ultimi decenni gli Arcivescovi di Sorrento–Castellammare hanno avocato a sé la nomina dei parroci, ignorando questo antichissimo Diritto del popolo. È un vero peccato perché viene cancellata un’antica e cara tradizione, collaborando, in tal modo, alla massificazione ed alla globalizzazione del vivere, piaghe del nostro tempo. L’elezione popolare di un parroco era un evento per la comunità chiamata alle urne e spesso meritava attenzione ed articoli anche sulla stampa nazionale. Perché avviene tutto questo? Certamente è un segno dei tempi: troppi partecipano poco e male alla vita della comunità parrocchiale e si fanno vivi solo per ricevere i Sacramenti.
Ancora alla fine del Settecento, per costruire la chiesa della Madonna di Rosella si mobilitò il popolo e chi non poteva contribuire finanziariamente, offriva le proprie braccia ed il proprio lavoro fisico. È presumibile che ciò sia avvenuto per tutte le nostre chiese, dalla Madonna del Lauro a San Michele, dalla Trinità a Sant’Agnello e che lo jus di eleggere il proprio parroco sia stato, per i nostri antichi, il premio alle loro fatiche ed ai loro sacrifici. Non veniamo noi, oggi, considerati più degni dei meriti dei nostri padri? E, in caso di bisogno, non dovremmo sentirci più tenuti a rimettere in piedi, pietra su pietra una nostra chiesa danneggiata da una calamità? Insomma, non dobbiamo più ritenere la nostra chiesa la casa di Dio ma anche un po’ la nostra casa?
Il racconto del lunedì di Ciro Ferrigno
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